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Apertura di conto corrente da parte del fallito dopo la dichiarazione di fallimento

di Giuseppe Rebecca
Il Fallimentarista, 13 settembre 2012

QUESITO - Nell'ipotesi in cui un fallito abbia acceso un conto corrente dopo la dichiarazione di fallimento e su tale conto siano pervenute rimesse attive poi completamente azzerate da pagamenti e prelievi, la Banca è legittimata passiva alla restituzione in favore della curatela? Può eccepire la Banca l'esistenza di un'attività di impresa di fatto esercitata dal fallito e non autorizzata dal G.D. e pretendere di dedurre dalle attività le passività?

RISOLUZIONE - "Il contratto di conto corrente stipulato successivamente al fallimento è inefficace ex art. 44 I. fall.: pertanto le somme che la banca riceve dal fallito e per conto del fallito rimangono di pertinenza del fallimento e sottratte alla disponibilità del fallito, senza necessità di apposito provvedimento di acquisizione, e l'attribuzione che di tali somme la banca effettui a favore di terzi per incarico del fallito non può essere opposta al fallimento" (M. Alberti, Commentario alla Legge Fallimentare, 2009, 226-227).

La banca, in altre parole, deve restituire al fallimento le somme transitate sul conto corrente (e gli interessi legali su tali somme), acceso in data successiva alla dichiarazione di fallimento dell'imprenditore, senza la possibilità di dedurre l'ammontare dei pagamenti che la banca stessa, su ordine (inefficace) del fallito, ha eseguito a favore di terzi, prelevando le somme dal conto. La banca può considerare solo passività deducibili ex art. 42, comma 2, I. fall, le spese per la tenuta del conto e le commissioni d'uso (M. Alberti , ibidem : "la banca può, peraltro, considerare passività deducibili ai sensi del secondo comma dell'art. 42 I. fall (solo) le spese per la tenuta del conto e le commissioni d'uso"). La stessa banca, inoltre, deve pagare un'ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno derivante da svalutazione monetaria, del quale non è necessario che il curatore dia la prova specifica (Trib. Roma, 11 marzo 1999; Trib. Catania, 31 maggio 1989).

La banca, da ultimo, ha diritto di richiedere al terzo che ha ricevuto il pagamento la ripetizione di quanto essa ha pagato al fallimento, provando di aver subito un definitivo impoverimento, ad esempio riaccreditando il pagamento sul conto del fallito (App. Milano, 16 ottobre 2002).

Caso particolare - Esercizio di una nuova attività commerciale da parte del fallito

È necessario, tuttavia, analizzare una particolare ipotesi che porterebbe a conclusioni parzialmente differenti da quelle sopra citate: l'apertura di un conto corrente da parte del fallito - dopo la dichiarazione di fallimento - a seguito dell'inizio di una nuova impresa commerciale da costui avviata.

La possibilità per il fallito di avviare una nuova impresa commerciale ha suscitato in passato, e continua a suscitare tuttora, orientamenti contrastanti (a titolo esemplificativo, a favore della possibilità dell'esercizio di una nuova impresa commerciale: Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 370, 811; Andrioli, Fallimento, in "Enc. Dir.", XVI, 406; Ferrara, Il fallimento, Milano, 1974, 300; Satta, Diritto Fallimentare, Padova, 1990, 141; Cass., Sez. un., 10 dicembre 1993, n. 12159). Contra: Brunetti, Diritto Fallimentare, Roma, 1932, 261 ; Azzolina, Il fallimento e le altre procedure, Torino, 1961, 555).

Da una parte è pacifico che, nella nuova impostazione normativa (D.Lgs. 169/2007), il fallito non perde la capacità di agire e rimane nella possibilità di esercitare qualsiasi professione o mestiere in forma autonoma o subordinata (il D.Lgs. 169/2007 ha eliminato, infatti, la disposizione - art. 5, comma 2, lett. a), D.Lgs. 114/1998 - che vietava l'iscrizione nel registro delle imprese dei soggetti dichiarati falliti, fino alla pronuncia della sentenza di riabilitazione): anche il soggetto fallito può, dunque, iscriversi nel registro delle imprese, quale titolare di una nuova impresa commerciale, distinta da quelle assoggettate a fallimento. Dall'altra emergono però altre considerazioni, di carattere sia giuridico che aziendalistico. In primo luogo, per avviare e gestire un'impresa sono di regola necessari mezzi economici per l'acquisto dei beni, macchinari (ecc.) e si pone, inoltre, il problema relativamente alle somme ricavate dalla gestione dell'impresa stessa: sono da considerare somme destinate a soddisfare la massa creditoria oppure possono essere utilizzate per potenziare la nuova attività?

Relativamente al primo punto, non si pongono particolare problemi, in quanto non sempre è necessario un ingente capitale (il fallito può, ad esempio, esercitare un'attività di mediazione, un'impresa di trasporti con veicoli ricevuti in comodato, un'impresa di vendita con merci dategli in conto deposito: Fiale, Diritto Commerciale, Napoli, 2010, 145).

In ogni caso, comunque, vale il principio dettato dall'art. 46. comma 2. secondo cui il fallito può trattenere per sè solo quanto necessario per il mantenimento suo e della famiglia, mentre spetta al curatore la somma eccedente tale limite. È chiaro che, in un simile ambito applicativo, non rimarrebbe alcuno spazio per destinare le somme di denaro eccedenti il fabbisogno familiare al potenziamento ed al rafforzamento dell'azienda.

A ciò si deve aggiungere l'oggettiva difficoltà nel reperimento di risorse sul mercato da parte dell'imprenditore fallito, che, non godendo della necessaria fiducia del mercato, manca della possibilità di ricorrere a finanziamenti, nonché di quel pur modesto capitale che assicura attività operativa e riserva per le varie emergenze. Ma la questione di maggior rilievo è che, come accennato in precedenza, gli utili della nuova attività commerciale legittimamente esercitata dopo la dichiarazione di fallimento rientrano nell'attivo fallimentare in quanto beni sopravvenuti (dopo aver preliminarmente soddisfatto il fabbisogno familiare); le spese sostenute per realizzarli sono invece escluse, vale a dire che il curatore non può richiedere la restituzione delle somme uscite dal conto per pagamenti effettuati dal fallito nell'esercizio della nuova impresa commerciale.

La Cassazione, infatti (Cass. n. 12159/1993), in materia di apertura di conto corrente da parte del fallito dopo la dichiarazione di fallimento, così si è espressa (richiamando Cass. n. 1417/1989 e in contrasto con Cass. n. 6777/1988): "[...] Applicando tale criterio al caso che il fallito, dopo la dichiarazione di fallimento, abbia esercitato una nuova attività d'impresa - rispetto alla quale in astratto è dato alla curatela di acquisire, oltre che singoli beni aziendali, l'azienda nel suo complesso (in modo che la massa consegue anche l'avviamento) ovvero gli utili dell'impresa - con la medesima sentenza è stato esattamente affermato che in quest'ultima ipotesi l'acquisizione è necessariamente limitata agli utili netti, non potendo essere acquisiti anche i ricavi che sono stati reinvestiti nell'esercizio dell'impresa, per i quali sussiste il rapporto di inerenza richiesto dal comma 2 dell'art. 42".

Questa sentenza pare affermare la possibilità di un'impresa del fallito piuttosto teorica, essendo legata la sua sopravvivenza alla volontà o meno di una sua acquisizione da parte del curatore del fallimento. La sentenza in commento prosegue stabilendo che "il risultato dell'attività non può essere acquisito senza considerare i debiti che il fallito ha dovuto assumere o adempiere per conseguirlo; è a dire, anzi, che l'utile realizza un bene sopravvenuto, da destinare al soddisfacimento dei creditori concorsuali, proprio perché già depurato dai costi".

Se, dunque, nell'esercizio della nuova impresa commerciale, il fallito si avvale di un conto corrente bancario, il curatore può richiedere alla banca il versamento del saldo attivo corrispondente all'utile dell'impresa, non anche la restituzione delle somme uscite dal conto per i pagamenti effettuati dal fallito nell'esercizio dell'impresa stessa, per esempio pagamenti effettuati a terzi tramite assegni bancari tratti sul conto ( Cass. 7 giugno 2002, n. 8274; Cass. 26 agosto 1998, n. 8481: App. Roma, 16 luglio 2007). Diverso (come rilevato inizialmente) è il caso in cui le somme versate su un conto corrente aperto dal fallito in pendenza del fallimento non provengano dallo svolgimento di una nuova attività di impresa e non sia provato il titolo della loro acquisizione: in tal caso, la banca ha l'obbligo di consegnare al fallimento non soltanto le somme disponibili sul conto, ma anche quelle erogate per versamenti, in quanto non rappresentano i costi sostenuti per realizzare i proventi sopravvenuti (Fiale, Diritto Fallimentare, Napoli, 2010, 146).

Spetta alla banca provare che il conto corrente è utilizzato per la nuova attività del fallito.

Il fallito, in conclusione, pur potendo esercitare un'impresa commerciale in costanza di fallimento, non può mai formarsi un patrimonio su cui possono fare affidamento i creditori successivi ai fini del soddisfacimento ed è "condannato ad essere nullatenente finché dura la procedura fallimentare", poiché egli non può disporre degli incassi, che vengono automaticamente acquisiti dal fallimento (Fiale, ibidem, 145).

Ritornando al quesito iniziale, se la banca provasse che le rimesse sul conto corrente - aperto successivamente alla dichiarazione di fallimento - provenissero da una nuova attività commerciale del fallito, la stessa banca risulterebbe legittimata, ex art. 42, comma 2, a dedurre quanto pagato per il fallito nell'esercizio dell'impresa stessa, versando alla curatela solo il netto.

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Apertura di c/c da parte del fallito dopo dichiarazione di fallimento

Senza aver iniziato una nuova impresa commerciale

A seguito dell'inizio di una nuova impresa commerciale

Tale contratto è inefficace ex art. 44 . fall.; la banca deve restituire al fallimento le somme transitate sul conto corrente, senza possibilità di dedurre i pagamenti effettuati.

Quindi se sono pervenute sul c/c rimesse attive, successivamente azzerate da pagamenti e prelievi, la banca deve restituire al fallimento l'intero ammontare delle rimesse attive.

Si rileva, altresì, come siano deducibili esclusivamente le spese di tenuta conto e le commissioni d'uso.

Il curatore può richiedere alla banca il versamento del solo saldo attivo corrispondente all'utile netto della nuova impresa; vengono così dedotte dalle rimesse attive pervenute sul c/c i pagamenti effettuati dal fallito nell'esercizio della nuova impresa.

Spetta alla banca provare che il c/c è utilizzato per la nuova attività del fallito.

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