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Azione revocatoria fallimentare: commento a Tribunale Venezia 5 agosto 2014

di Giuseppe Sperotti
portale IL CASO.it, 4 dicembre 2014

Si commenta l’interessante recente sentenza del Tribunale di Venezia, la più recente in materia di revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie.

Il provvedimento tocca, assieme ad altri aspetti che qui trascuriamo, tutti i punti di interesse; in taluni casi ci siamo riferiti alla CTU, che avevamo a disposizione, in quanto la sentenza talvolta fa solo dei riferimenti sintetici.

Questi i punti che analizzeremo:

1) Conoscenza dello stato di insolvenza

La sentenza fa un chiaro excursus sul tema, condividendo quanto già più volte affermato dalla Cassazione, e ormai comunemente accertato, e precisamente:

“La conoscenza dello stato di insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo contraente deve essere effettiva e non meramente potenziale assumendo rilievo la concreta situazione psicologica della parte al momento della stipula dell’atto poi impugnato, e non anche la semplice conoscibilità oggettiva ed astratta delle condizioni economiche della controparte; ne consegue che, non ponendo la legge alcun limite ai mezzi di prova esperibili da parte del curatore, gli elementi indicativi della concreta conoscibilità della situazione di insolvenza ben possono risultare da semplici indizi, purché ad essi sia attribuita l’efficacia probatoria delle c.d. presunzioni semplici (e non assolute, o legali), onde formare necessariamente oggetto di una concreta valutazione da parte del giudice di merito, da compiersi in applicazione del disposto degli art.. 2727 e 2729 c.c.” (v. Cass. 4.11.1998 n. 11060, Cass. 7.7.1999 n. 7064, Cass. 28.2.2007 n. 4762; cfr. Cass. 11.11.1998 n. 11369, secondo cui la prova della conoscenza dello stato di insolvenza del debitore poi fallito “può legittimamente fondarsi su elementi indiziari, purché gravi, precisi e concordanti, tali, cioè, da lasciar ragionevolmente presumere una conoscenza effettiva, e non meramente potenziale del predetto stato assumendo indiscussa rilevanza probatoria, a tal fine, le eventuali qualità personali e professionali del creditore, la struttura organizzativa di cui egli può predisporre, la zona commerciale in cui esplichi, in concreto, la propria attività”).

In particolare, la Corte di Cassazione ha precisato che “la sussistenza del requisito della “scientia decoctionis” non può essere desunto dalla mera conoscibilità dello stato di insolvenza e, pur giovando al fine del suo accertamento le presunzioni evincibili da circostanze esterne obiettive tali da indurre ragionevolmente una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza a ritenere che la controparte del rapporto si sia trovata in stato di dissesto - l’effettiva conoscenza, da parte del creditore, dello stato di insolvenza del debitore, in quanto elemento positivo dell’azione revocatoria, non può essere ravvisata per il solo fatto che l’ignoranza di tale insolvenza sia colpevole” (v. Cass. 28.8.2001 n. 11289, Cass. 28.8.2004 n. 17213, Cass. 21.12.2005 n. 28299, Cass. 4.3.2010 n. 5256; cfr. Cass. 7.2.2001 n. 1719, Cass. 21.1.2000 n. 656, Cass. 28.11.2008 n. 28445 che indicano tra i segni obiettivi esteriori dello stato di insolvenza le notizie di stampa, i risultati del bilancio, i protesti, il cattivo andamento del conto corrente, la revoca del credito di firma anche in relazione alla dimensione del centro in cui si trovavano ad operare la banca creditrice e la società fallita, la contiguità territoriale con il luogo in cui si manifestano detti sintomi, la occasionalità o la continuità dei rapporti, la loro importanza).

Peraltro “ai fini dell’accertamento della conoscenza, da parte del creditore, dello stato di insolvenza del debitore, deve tenersi conto della qualità e delle specifiche conoscenze tecniche del creditore; in particolare, quando il creditore sia una banca, va considerato il fatto che gli istituti di credito, disponendo di operatori professionali qualificati e di peculiari strumenti conoscitivi sono in grado di acquisire informazioni sulla situazione patrimoniale ed economica dei propri debitori (specie per quanto concerne l’eventuale assoggettamento a procedure giudiziarie recuperatorie) in modo certamente più puntuale e tempestivo rispetto agli altri creditori” (v. Cass. 13.10.2005 n. 19894; cfr. Cass. 2.7.2007 n. 14978).

“Quanto alla dedotta, da parte della banca, impossibilità di conoscere lo stato di decozione vale osservare che non appare realistico ritenere che l’istituto di credito - operatore professionale qualificato, in grado di trarre dal mercato specifiche informazioni sulla situazione economico-finanziaria della propria cliente radicata nel medesimo ambito territoriale (v. Cass. 28.2.2007 n. 4762) - abbia omesso di effettuare le verifiche necessarie a fronte di una serie di elementi gravi precisi e concordanti quali quelli precedentemente esaminati”.

Infine il giudice richiama anche il “consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale per cui “gli elementi assunti a fronte di presunzione, ai sensi dell’art. 2729 c.c., non debbano essere necessariamente più d’uno, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento - purché grave e preciso - e dovendosi il requisito della concordanza ritenere menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario concorso di più elementi presuntivi” (v. ex multis, Cass. 11.9.2007 n. 19088 e Cass. 26.3.2003 n. 4472)”.

Sul punto c’è la massima condivisione.

2) Fido

Il giudice ha ritenuto applicabile anche alla “nuova” revocatoria il riferimento al fido.

Vengono richiamate le (poche) sentenze che si sono dichiarate in questo senso: “Solo le rimesse solutorie hanno infatti lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca concretandosi in versamenti eseguiti su un conto con saldo passivo, se privo di affidamento, o versamenti che abbiano determinato un saldo debitorio eccedente il limite dell’affidamento, in ipotesi di conto affidato. [...] appare ragionevole riferire l’espressione “esposizione debitoria” di cui all’art. 67, terzo comma, l.fall. ai soli debiti liquidi ed esigibili, e tale presupposto non ricorre in ipotesi di versamenti (rimesse) effettuati entro i limiti dell’affidamento. Anche con la nuova disciplina appare quindi corretto prendere in considerazione, ai fini della loro revocabilità, solo quelle rimesse che vengono effettuate su di un conto scoperto, ossia, su di un conto con saldo passivo non assistito da apertura di credito o con saldo passivo che supera l’affidamento.

Solo con riguardo a dette rimesse assume dunque rilievo l’indagine sulla consistenza e durevolezza, quali presupposti per la loro revocabilità”.

In ogni caso, continua il giudice veneziano “non va infatti tenuto conto di ulteriori ‘aperture di credito’ quali il c.d. ‘castelletto s.b.f.’ relativo all’anticipo fatture [...] è infatti la sola apertura di credito in conto corrente a costituire obbligo per la Banca di tenere a disposizione del cliente una precisa somma di denaro con conseguente possibilità di distinguere tra le rimesse operanti in un conto passivo e quelle in un conto scoperto, come già precedentemente rilevato (cfr. sul punto anche Cassazione Civile Sez. I n. 7451 del 20 marzo 2008 e n. 3396 del 7 marzo 2003)”.

L’orientamento assunto non pare però scevro da incertezze, come confermato da altre sentenze contrarie e soprattutto da una copiosa dottrina.

Ma la questione nel caso specifico non avrebbe dovuto avere alcun effetto, poiché il conto era caratterizzato da un rientro, e i rientri, anche sulla base della normativa precedente, sono sempre revocabili, indipendentemente dal fido. Tenuto conto della situazione di tensione finanziaria che caratterizza una impresa nei periodi anteriori al fallimento, pare improbabile poter ipotizzare che un normale andamento del conto sia caratterizzato da un rientro. Di norma ci sono esplicite richieste degli istituti di credito in questo senso, richieste magari confortate da elementi concreti (garanzie fideiussorie o altro).

Si riporta uno schema riassuntivo delle diverse posizioni assunte dalla giurisprudenza e dalla dottrina, sul punto.

Orientamenti sul punto “riferimento al fido”[1]

Giurisprudenza

Validita’ del fido

Irrilevanza del fido

Dottrina

Validita’ del fido

Irrilevanza del fido

3) Prova del fido

Nella sentenza si segue il recente orientamento della Cassazione “Sez. 1 n. 8438 del 28 maggio 2012 conforme a numerosi precedenti, per cui “qualora la scrittura privata non autenticata formi un corpo unico col foglio sul quale è impresso il timbro postale, la data risultante da quest’ultimo è data certa della scrittura, perché la timbratura eseguita in un pubblico ufficio equivale ad attestazione autentica che il documento è stato inviato nel medesimo giorno in cui esse è stata eseguita, mentre grava sulla parte che contesti la certezza della data l’onere di provare - pur senza necessità di querela di falso - che la redazione del contenuto della scrittura è avvenuta in un momento diverso”.

Nel caso specifico, come risulta dalla CTU, l’autoprestazione era presente, ma solo sull’ultimo foglio di una serie, e nei precedenti fogli non c’era alcun timbro.

Comunque la questione pare assorbita dalle osservazioni fatte sopra.

4) Consistenza

Circa la consistenza la sentenza non dice nulla, richiamandosi alla CTU che a sua volta si richiama alla giurisprudenza.

La consistenza è stata determinata in una percentuale, il 5% del rientro.

I primi interventi di dottrina hanno sostenuto che la riduzione “consistente” va valutata, e solo ex post, in termini percentuali, e non assoluti rapportandola sia al saldo sia alla operatività media del rapporto. Esemplificando, ove si effettuasse l’analisi rimessa per rimessa, una rimessa di euro 10.000 potrebbe essere considerata consistente su un conto a debito di 30.000, e non su un conto a debito di 500.000. Analogo discorso in relazione ai movimenti medi dell’azienda. Se abitualmente le operazioni sono nell’ordine di 1.000 euro, 10.000 euro sono indubbiamente consistenti; se le operazioni sono mediamente nell’ordine di 100.000 euro, 10.000 euro non sono consistenti.

Ma la norma fa riferimento a riduzione di debito per effetto di più rimesse, non di singole rimesse; in questo caso, quindi, nessun rilievo avrebbe il singolo movimento, dovendosi necessariamente far riferimento alla sommatoria delle rimesse, o meglio ancora agli effetti di queste rimesse sull’esposizione debitoria.

Le aggettivazioni sono quindi riferite al debito, e non alle singole operazioni, e quindi si dovrebbe aver riguardo solo ed esclusivamente al risultato.

È stato però rilevato che qualsiasi applicazione percentuale presta il fianco a possibili contestazioni, legate sia all’entità della percentuale stessa, sia soprattutto alla base di riferimento.

All’atto pratico, poi, talvolta l’applicazione di un concetto che parrebbe di primo acchito logico, può comportare soluzioni del tutto illogiche. Si pensi, ad esempio, alla percentuale legata alla massima esposizione. Più alta risulta l’esposizione, maggiori sono gli importi esentati da revocatoria, nel senso che non si supera l’importo soglia. Ed è di tutta evidenza che si tratta di una impostazione non logica. Dovrebbe essere proprio il contrario!

Il concetto di cifra assoluta è sicuramente più aderente alla realtà. Certo occorrerà tararlo all’andamento del conto corrente specifico, ma pare l’interpretazione più razionale.

Certamente nella determinazione dell’importo influiscono considerazioni del tutto soggettive, ma questo appare inevitabile, data la previsione normativa.

Nel caso specifico, abbiamo visto come la percentuale prescelta sia stata del 5% sul rientro. Una tra le tante possibili.

5) Durevolezza

Anche qui la sentenza non dice nulla, essendo esplicitato nella CTU e prima ancora nello stesso quesito come si intenda per periodo durevole: 5 giorni.

La riduzione dell’esposizione debitoria deve essere, oltre che consistente, anche “durevole”. Pure questo requisito non è stato esplicitato dalla norma.

Da una parte potrebbe ritenersi che la “durata” della riduzione debba protrarsi fino alla chiusura del rapporto, in modo che la banca abbia conseguito un effettivo “rientro” a discapito degli altri creditori. In tale modo “durevole” verrebbe a significare praticamente “definitivo”, e quindi l’importo revocabile dovrebbe coincidere con il rientro medesimo.

D’altro canto, da altri potrebbe essere considerata durevole una riduzione dell’esposizione debitoria protrattasi per qualche giorno, o per qualche settimana, anche se poi nuove operazioni di addebito l’abbiano riportata ai livelli precedenti.

Anche per la durevolezza si è in presenza di un concetto relativo; il parametro temporale potrebbe ad esempio essere valutato in rapporto alla tempistica usuale delle operazioni sullo specifico conto corrente. Posto che la riduzione durevole è richiesta per l’esposizione debitoria ridotta con più rimesse, non sarà certamente considerata durevole, e quindi non sarà revocabile, una rimessa subito seguita da un addebito, magari nella stessa giornata. Deve essere durevole la riduzione dell’esposizione, non le singole rimesse.

Più precisamente, riteniamo che un accredito possa essere seguito a breve da un addebito che, se non lo riduce al di sotto del limite della consistenza, non ne inficia la durevolezza; in pratica è la consistenza a dover essere durevole.

Si può ritenere che solo gli addebiti “significativi” vadano presi in considerazione per limitare la durevolezza, ovvero quelli che incidono effettivamente sul saldo.

6) Art. 70 L.F.

L’art. 70 è stato ritenuto applicabile da questo giudice anche ante 1 gennaio 2008.

L’art. 70, comma 3, l.f. adotta la soluzione sulla revocabilità delle rimesse in conto corrente bancario già proposta in passato: è revocabile il cosiddetto “rientro”, e quindi l’importo compreso fra “massimo scoperto” e “saldo finale” del conto [3].

A dire il vero c’era chi inizialmente aveva ipotizzato che l’art. 70 l.f. non riguardasse le rimesse bancarie, anche se la dottrina maggioritaria riteneva invece chiaramente applicabile la disposizione anche alle rimesse, trattandosi di un rapporto continuativo e reiterato [4].

Ad ogni buon conto, la modifica normativa introdotta dal D.Lgs. 169/2007 ha aggiunto l’espressione “posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario”, eliminando così ogni possibile incertezza.

Tale variazione è entrata in vigore il 1° gennaio 2008 e, come prevede l’art. 22 di tale Decreto Legislativo, si applica ai procedimenti per la dichiarazione di fallimento pendenti a tale data e a quelli successivi.

Quid Juris per i fallimenti dichiarati precedentemente?

Non si dovrebbe poter ritenere come interpretativa, questa norma, essendo appunto stabilita una specifica decorrenza successiva. Ed allora ne consegue che non sarebbe applicabile per procedure dichiarate dal 17 marzo 2005 al 31 dicembre 2007. In base alla norma, letteralmente così dovrebbe essere.

Sotto l’aspetto pratico ne deriverebbe che per procedure dichiarate nell’intervallo temporale sopra indicato non si applicherebbe la limitazione dell’art. 70 l.f..

Sul punto, per la non applicabilità, si è pronunciato il Tribunale di Milano, Sentenza n. 6946 del 29/05/2009, estensore Dr Roberto Craveia. Anche la Cassazione si è interessata al tema (Cassazione n. 20834 del 7/10/2010), ma l’interpretazione, data obiter dieta, non è assolutamente convincente. È stato infatti affermato che si tratta di norma interpretativa, ancorché di applicazione differita. È evidente il contrasto logico, per cui ne deriva, a nostro avviso, la sostanziale inapplicabilità della norma stessa.

L’importo revocabile è dato dalla differenza tra la maggiore esposizione del periodo e l’ammontare residuo della posizione al momento del fallimento. Ma quale sarà il saldo al momento della dichiarazione di fallimento cui fare riferimento? Si tratta di una questione che non ci pare sia già stata approfondita.

Di primo acchito, tutti, si è portati a considerare il saldo che risulta dall’Estratto Conto appunto alla data del fallimento.

Ma in realtà più correttamente andrebbe considerato il saldo che è stato oggetto o sarà oggetto di ammissione allo stato passivo.

7) Conclusioni

In conclusione, la sentenza tocca tutte le problematiche, anche se parte le richiama con un semplice riferimento alla CTU (aspetto trattato anche da Cassazione n. 15028 del 27/11/2011, n. 3519 del 9/03/2001 e n. 4138 del 26/04/1999).

Da parte nostra abbiamo espresso le nostre considerazioni; non condividiamo la questione del riferimento al fido, e comunque non condividiamo che la sentenza non consideri che si tratta di un conto al rientro.

Quanto a consistenza e durevolezza, la sentenza sposa una delle tesi possibili, ma ad oggi non c’è una soluzione condivisa da tutti.



[1] Per una analisi più dettagliata, vedasi “Rilevanza o meno dell’affidamento nella nuova revocatoria fallimentare delle rimesse” di Giuseppe Rebecca e Moira Marchetti, Il Diritto Fallimentare e delle Società Commerciali, CEDAM, n. 6/2010, pag. 788.

[2] Ma solo per rimesse né consistenti né durevoli, quindi di fatto inapplicabile. Ad ogni buon conto il caso trattato riguardava la vecchia revocatoria e i giudici hanno sentenziato uscendo dal caso esaminato.

[3] Ricordiamo anche la sentenza della Corte di Appello di Firenze n. 462/2006, depositata l’8/03/2006, che sposava tale concetto per la revocatoria ante riforma. Cassazione n. 26136 del 21 novembre 2013 ha però cassato tale orientamento.

[4] In questo senso, da ultimo vedasi anche L. Guglielmucci (ne Il Fallimento n. 5/2011).

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