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La vendita di quote non è «cessione»

di Giuseppe Rebecca e Sara Santacatterina
Il Sole 24 ORE - Norme & Tributi - 13 dicembre 2016

L'articolo 20 del Dpr 131/86 consente all'amministrazione finanziaria di riqualificare gli atti, e richiedere al contribuente il versamento di un'imposta di registro maggiore, soltanto in base agli effetti giuridici complessivi degli atti stessi e non con riferimento ai loro effetti economici. Pertanto, la vendita delle quote societarie non è riqualificabile in cessione dell'azienda, poiché le due fattispecie non sono equiparabili in una dimensione giuridica, bensì solo sotto il profilo economico. È questo il principio affermato dalla Ctr della Toscana con la sentenza 1950/17/16 dell' 8 novembre scorso. Nel caso di specie, era stata costituita una società impersonale mediante il conferimento di un ramo d'azienda. Sette giorni più tardi, la conferente (unica socia della newco) aveva ceduto la partecipazione totalitaria ad un'altra società. Richiamando il principio della prevalenza della intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti sul titolo o forma apparente degli stessi, ai sensi dell'articolo 20 del Dpr 131/86, l'amministrazione finanziaria aveva notificato l'atto impositivo con cui contestava l'applicazione dell'imposta di registro fissa, liquidandola su base proporzionale. Secondo l'agenzia delle Entrate, le due operazioni (di conferimento di ramo aziendale e di successiva cessione di quote sociali) devono essere considerate complessivamente, come parte di un'unica fattispecie a formazione progressiva, e quindi riqualificate in cessione d'azienda, che sconta l'imposta di registro proporzionale.

La Ctp ha accolto il ricorso del contribuente, sostenendo che l'applicazione dell'imposta di registro, sulla base del citato articolo 20, avviene sull'atto sottoposto a registrazione prescindendo dalla volontà delle parti o da altri elementi esterni all'atto. La Ctr della Toscana ha confermato l'orientamento della Ctp, sottolineando che la scelta del contribuente di optare per la cessione di partecipazioni, anziché per la cessione d'azienda, non è finalizzata al mero conseguimento di un risparmio fiscale: le due fattispecie differiscono (anche) sotto il profilo degli effetti giuridici civilistici, relativamente alla successione dei rapporti di lavoro, al regime dei debiti pregressi e al divieto di concorrenza. La preferenza del contribuente verso un determinato atto è giustificata da valide ragioni economiche e non costituisce abuso del diritto. Ricordiamo, invece, che la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che, ai sensi dell'articolo 20, la corretta qualificazione di un atto va ricercata nella volontà delle parti, in base all'effetto giuridico finale conseguito, prescindendo dall'aspetto formale dello stesso. Si confida in un cambiamento nell'orientamento di altra giurisprudenza di legittimità, che si è espressa in senso contrario a Ctr 1950/17/16, sia in virtù delle ragioni economiche sottese all'opzione per la cessione di partecipazioni, ma anche alla luce della nuova disciplina antielusiva generale, dettata dal Dlgs. 128/2015 sull'abuso del diritto e valida sia per le imposte dirette che per le indirette (articolo 10-bis dello Statuto del Contribuente). Si consideri, infatti, che per espressa previsione normativa la cessione di partecipazioni preceduta da conferimento d'azienda non è elusiva ai fini delle imposte dirette (articolo 176 del Tuir). Ora che la disciplina antielusiva è unica per le imposte dirette e per le indirette, poggiando in entrambi i casi sull'articolo 10-bis, non pare ragionevole considerare la medesima operazione (cessione di quote societarie preceduta da conferimento) elusiva ai fini delle imposte indirette e lecita ai fini delle imposte dirette: è illogico infatti qualificare un'operazione alternativamente elusiva, o meno.

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