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Derivati, cronaca di un fallimento di Stato

di Giuseppe Rebecca
portale Lettera43.it, 16 febbraio 2018

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Lo Stato italiano, almeno da quando Carlo Azeglio Ciampi era ministro del Tesoro e Mario Draghi direttore del Tesoro, ha sottoscritto contratti derivati, sui tassi, con le più importanti banche d’affari del mondo anglosassone. E ci ha quasi sempre rimesso. Ma senza andare troppo indietro nel tempo, anche per non dover recriminare su perdite antiche, pressoché passate sempre sotto silenzio, dopo anche essere stato dato dai più credito di buona gestione a chi si era allora occupato delle finanze pubbliche statali, veniamo alla situazione recente. Si è molto parlato in questi anni di debito pubblico e di spending review; si è parlato di auto blu e di altri interventi, più simbolici che di sostanza, mentre il debito continuava ad aumentare e toccava massimi storici. Curiosamente, invece, del salasso che ancor oggi provocano le perdite sui derivati sottoscritti dallo Stato non si parla o si parla troppo poco. Dopo il picco di attenzione tra il 2012 e il 2013 non ne parlano più i telegiornali, non si fanno campagne di stampa, non si fanno più dibattiti.

GLI EFFETTI DELLA POLITICA DI DRAGHI. Gli articoli ci sono, invero, ma rimangono nelle pagine interne di economia, se si escludono la serie di inchieste di Luca Piana su L’Espresso e l’approfondimento del 18 giugno 2017 del Sole 24 Ore, che con Morya Longo ha cercato di capire perché l’Italia perda una somma incomparabilmente più alta degli alti Paesi europei alla voce derivati. Nel solo 2016 l’onere per il bilancio pubblico conseguente ai derivati è stato di oltre 8,3 miliardi di euro. «Gli esborsi ammontano a 4,25 miliardi ma la cifra raddoppia se, come fa Eurostat, si sommano i flussi netti di interessi sui derivati con il debito contabile. Tra il 2013 e il 2016 l’effetto accumulato è di 24 miliardi (13,7 per i soli esborsi), che salgono a 32 se si risale al 2011. Fa notare Longo che dal 2013 al 2016 la politica monetaria di Mario Draghi ha permesso alle nostre casse pubbliche un risparmio cumulato in termini di interessi di 24 miliardi. L’effetto Draghi si è accentuato dalla partenza del Quantitative easing ma la sostanza è chiara: "Il sollievo che la Bce ci ha donato, insomma, i derivati ce l’hanno tolto". Era una profezia che, d’altra parte, era stato facile annunciare su Linkiesta» (da Linkiesta del 19 luglio 2017).

VERSO L'ESAURIMENTO DEL QE. E questo problema diventerà sicuramente più evidente al prossimo esaurimento del Qe. «Solo per gli anni 2017-2020 l’ultimo Def ha calcolato una spesa di 15,2 miliardi, di cui ben 5,1 nel 2018. Piana nel libro La Voragine, ha stimato che tra il 2016 e il 2021 le perdite saranno di 24 miliardi. Un’enormità, qualcosa come tre ponti sullo Stretto. Ma i contratti potrebbero durare molto di più. In un caso di “cross currency swap” sottoscritto nel 1999 era previsto che una banca potesse esercitare un’opzione per estendere il contratto fino al 2039. Addirittura, dopo una rinegoziazione del 2003, la scadenza ultima slitterebbe al 2058. È il problema delle rinegoziazioni: abbassano la spesa nel breve periodo ma spostano il rischio su altre poste o su tempi più lunghi» (sempre da Linkiesta del 19 luglio 2017).

Mentre gli altri Stati europei perdono molto poco con i derivati, o addirittura ci guadagnano, l’Italia si trova nella situazione peggiore. C’è da dire che si tratta di coperture fatte in previsione di un rialzo dei tassi, coperture iniziate già quando Draghi era direttore del Tesoro. E lo stesso Draghi nella Bce, tenendo i tassi bassi da una parte, aggravava oggi la situazione dell’Italia, a tutto vantaggio delle banche d’affari. Peraltro nello stesso tempo i tassi bassi non fanno esplodere il debito pubblico. Ma fino a qui le cose potrebbero anche starci, in linea di massima. Ma quello che nessuno ha fatto o chiesto di fare, a quanto ci risulta, è una cosa semplice e banale. Calcolare le commissioni implicite al momento della sottoscrizione di questi contratti derivati.

LE SOTTOSCRIZIONI DEL GOVERNO. In Italia da parecchi anni le aziende e gli enti pubblici locali stanno coltivando un grosso contenzioso con le banche che hanno fatto sottoscrivere i derivati, e normalmente emergono dati impressionanti. Le commissioni implicite, cioè il differenziale di prezzo applicato, al momento della sottoscrizione, risulta in moltissimi casi elevato, in tali casi anche elevatissimo. Giusto avere delle commissioni, per l’istituto che li tratta, ma non certamente utili esagerati, fuori mercato. Se poi si tratta di rinegoziazioni, il danno per il sottoscrittore aumenta, sempre. Se poi ci fosse anche un up-front, la questione si aggrava ancora più, normalmente. Vediamo ora qualche tipologia di opzione sottoscritta dal governo italiano. Ci riferiamo a uno swap a 30 anni di 3 miliardi stipulato nel 2004 con Morgan Stanley. Sempre Morgan Stanley proprio con Draghi, nel 1994, si era assicurata la possibilità di estinguere tutti i contratti di derivati nel caso il valore della propria esposizione verso lo Stato avesse oltrepassato un limite, variabile da 50 a 150 milioni a seconda del rating dello Stato italiano. La soglia è stata superata subito, ma la banca ha atteso ad esercitare la clausola nel 2011, quando i contratti attivi sono 19. Il governo allora era nel pieno della tempesta sullo spread, ed era debole; così ha dovuto pagare 3,1 miliardi all’istituto americano.

LA BANCA CITATA PER DANNO ERARIALE. Proprio su tale vicenda si è mossa lo scorso anno anche la procura della Corte dei Conti del Lazio. «Con una mossa che non ha precedenti, ha citato una banca d’affari internazionale per danno erariale. Morgan Stanley secondo l‘accusa sarebbe responsabile del 70% di un danno da 3,9 miliardi. Il motivo? In soldoni l’istituto avrebbe dovuto consigliare lo Stato, mentre nel 2011, estinguendo tutti i contratti "ha commesso palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale". Perché? Perché era in una posizione particolare, quella di specialist: si tratta delle banche che assistono il governo nelle aste dei titoli di Stato e che in quel ruolo devono contribuire alla gestione del debito pubblico anche attraverso un’attività di consulenza e ricerca. La banca giustifica la sua scelta con la salita record dello spread nel 2011» (Linkiesta del 19/7/2017).

«Ancora più rivoluzionaria la richiesta del 30% di danni, ossia oltre un miliardo, ai dirigenti del Tesoro che per anni non si accorsero di tale clausola: Maria Cannata, tuttora direttore del dipartimento del debito pubblico del Tesoro, il suo predecessore Vincenzo La Via e gli ex direttori del Tesoro Domenico Siniscalco, poi passato alla stessa Morgan Stanley, e Vittorio Grilli, ora a Jp Morgan. L‘accusa è che alcuni contratti di derivati evidenziavano “profili speculativi” che non li rendevano idonei alla finalità di ristrutturazione del debito, ossia l’unica finalità ammessa dalla normativa vigente. Né sarebbero state attivate adeguate garanzie. La prima udienza del processo si terrà nell’aprile 2018 e spetterà a un collegio di magistrati verificare la fondatezza delle accuse» (Linkiesta del 19/7/2017).

PERDITE CONSISTENTI. Altre considerazioni: il figlio di Draghi fino al febbraio 2017 ha lavorato proprio alla Morgan Stanley, mentre il papà, già direttore generale del Tesoro dal 1991 al 2001, ha assunto cariche importanti, come del resto molti altri ex ministri stranieri, per più anni in Goldman Sachs (2002/2005). In luglio 2017 la Camera ha approvato le mozioni della maggioranza tese ad aumentare la trasparenza sui contratti derivati del Tesoro e d’ora in poi il ministero dell’Economia dovrà pubblicare sul sito del Dipartimento del Tesoro con maggiore frequenza, «preferibilmente trimestrale», i dati aggiornati sul valore di mercato dei contratti e sul valore su cui si calcolano i flussi finanziari (nozionale). Nello stesso momento è stata anche bocciata la mozione del M5s che chiedeva di vedere cosa c’è scritto nei singoli contratti. Il ministero si è appellato al segreto di Stato. «Mettere in chiaro i contratti equivale a danneggiare il Paese, ad esporlo al rischio di speculazioni degli operatori di mercato» ha detto il ministro Padoan. Le perdite effettive annue sono consistenti, variano in base ai periodi presi in considerazione. È da ricordare che sono ancora aperti circa un centinaio di contratti per un controvalore di poco meno di 150 miliardi di euro e che potrebbero produrre perdite negli anni a venire per 40 miliardi di euro. Lo stesso Tesoro le ha già stimate in 15 miliardi tra il 2017 e il 2020.

LE CONSEGUENZE SUL DEFICIT. «I derivati sono stati abbondantemente usati in alcuni momenti ben precisi. Il primo è nel 1997-1998, ai tempi del governo Prodi, quando in gioco c’era l’ingresso nell’euro per il primo gennaio 1999. Quando i parametri di Maastricht decretavano chi era dentro e chi fuori la nuova moneta. Ebbene: l’intensa attività della Repubblica in derivati (che avevano breve durata) ha permesso di ridurre il deficit di 2,4 miliardi nel 1997 e di 3 miliardi nel 1998. Risparmiando 0,2 e 0,3 preziosi punti percentuali nel rapporto deficit/Pil. La seconda occasione è nel 2003-2004-2005, ai tempi del governo Berlusconi. In questo caso l’intensa attività in derivati (a più lunga scadenza) ha consentito una riduzione del deficit di 1,18 e 1,31 miliardi nel 2004 e nel 2005, pari a 0,1 punti percentuali sul Pil l’anno. Morale: tra il 1997 e il 2005 i derivati hanno diminuito il deficit per un totale di 11,6 miliardi. Peccato che nei 10 anni successivi l’abbiano aumentato di quasi 24 miliardi. Il Bengodi è finito: ora lo zero virgola di spazio sul deficit possiamo solo “sudarcelo” a Bruxelles».

Hanno inciso sul debito pubblico per 24 miliardi di euro e avevano un valore di mercato negativo di 31,8 miliardi. Così afferma Morya Longo (Il Sole 24 Ore 15 dicembre 2017): «I derivati sono serviti per anni per “aggiustare” di qualche zero virgola (quando era consentito dalla legge europea) il rapporto tra deficit e Pil. Ora ne paghiamo il conto con un aggravio sullo stesso deficit. Che costringe il Paese a misure fiscali più austere di quanto sarebbe necessario senza derivati. A spese dei cittadini. Delle imprese. Dell’economia».

 

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