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Quote societarie cedute al valore nominale: possibili problematiche

di Giuseppe Rebecca
commercialistatelematico.com - 22 gennaio 2024

In questo articolo trattiamo della cessione, da parte di una persona fisica, di quote di società, di persone o di capitale, ad un valore, pari al nominale, inferiore al valore effettivo, o comunque anche ad un valore inferiore alla frazione di capitale netto. Si tratta di operazione rischiosa, sotto l’aspetto fiscale? E l’Agenzia delle Entrate ha la possibilità di contestare il corrispettivo indicato? Come vedremo, dal 2016 la Cassazione è intervenuta due volte, su questo particolare tema. E seppure con motivazioni diverse, e in parte anche contrastanti, alla fine ha ammesso la possibilità di un accertamento, alla presenza di qualche ulteriore elemento.

Ricordiamo come il TUIR (art. 68, c. 6 del D.P.R. n. 917/1986) preveda che la cessione di una partecipazione societaria possa dar luogo ad una plusvalenza (redditi diversi), costituita “dalla differenza tra il corrispettivo percepito ovvero la somma od il valore dei beni rimborsati ed il costo od il valore di acquisto assoggettato a tassazione”, aumentato degli oneri ivi indicati.

Si prevede esplicitamente il corrispettivo percepito, e non il valore effettivo. La questione è tutta qui, come si vedrà.

 

Il corrispettivo

L’articolo 68 sopra indicato fa quindi esplicito riferimento al “corrispettivo” percepito. Mentre il valore normale costituisce il criterio di riferimento, per la quantificazione del corrispettivo, solo qualora lo stesso sia “in natura”.

Per queste cessioni, osserviamo come anche per le imprese occorra sempre assumere il “corrispettivo” conseguito (artt. 85 e 86 del D.P.R. n. 917/1986).

In ogni caso non esiste, per le persone fisiche, una norma che sancisca per queste cessioni l’esistenza di un “negozio misto cum donatione”, mentre tale previsione si ha per le imprese in genere, per i beni (comprese quindi anche le partecipazioni) “destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”. In questi casi la plusvalenza è costituita dalla differenza tra il valore normale e il costo dei beni stessi (art. 86, comma 3, del D.P.R. n. 917 del 1986), ovvero si comprende tra i ricavi (nel caso si tratti di beni, comprese le partecipazioni, che danno luogo a ricavi) il valore normale dei beni “destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa” (art. 85, comma 2).

 

Persona fisica cedente

Trattiamo il caso della cessione di quote di società da parte di socio persona fisica, non imprenditore.

In presenza di una significativa differenza di valore, tra corrispettivo e valore nominale con una contemporanea presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’Amministrazione Finanziaria potrebbe rettificare il valore della cessione.

Per la determinazione del prezzo la prassi evidenzia queste ipotesi:

- al valore nominale della quota (corrispondente alla percentuale del capitale sociale) oppure

- al costo fiscale per il cedente oppure

- al valore della quota di patrimonio netto (trascurando i plusvalori latenti sulle immobilizzazioni, l’avviamento e l’eventuale quota di utile dell’anno in formazione),

- oppure si applicano criteri intermedi.

E di norma accade che, in occasione di meri riassetti di quote tra soci (es. il prezzo, scontato, tiene anche conto dell’apporto da parte del socio acquirente) oppure di cessione tra familiari è prassi assai diffusa determinare il prezzo di cessione sulla scorta del valore nominale delle quote (o del mero costo fiscale delle stesse per il cedente), azzerando così di fatto il capital gain in capo al cedente.

Il presupposto impositivo

Il plusvalore conseguito è tassato ex art. 67 e 68 TUIR sulla base di quanto incassato, indipendentemente dal valore normale.

L’elemento rilevante è unicamente il corrispettivo incassato, a nulla influendo l’elemento psicologico che ha portato a cedere ad un prezzo eventualmente inferiore a quello di mercato. È stato osservato come, nel campo delle imposte dirette, tutte le volte in cui il legislatore si sia voluto sottrarre a tale principio, lo abbia espressamente previsto. Si veda, ad esempio, la tassazione in base al cd. “valore normale”, nel transfer pricing, ex art. 110 Tuir. Invero l’art. 9 del Tuir, c. 4, prevede quanto segue:

“il valore normale è determinato:

a) per le azioni, obbligazioni e altri titoli negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri, in base alla media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese;

b) per le altre azioni, per le quote di società non azionarie e per i titoli o quote di partecipazione al capitale di enti diversi dalle società, in proporzione al valore del patrimonio netto della società o ente, ovvero, per le società o enti di nuova costituzione, all’ammontare complessivo dei conferimenti.”

Ma questa norma riguarda la determinazione del valore normale delle partecipazioni, la cui applicazione è limitata ad altre fattispecie (cessioni con corrispettivo “in natura”, conferimenti in società, ecc.), fattispecie tutte specificatamente individuate. Non è neppure stata prevista una norma a possibile tutela del contribuente, mettendolo così al riparo dall’accertamento, purché sia dichiarato un valore minimo da assoggettare a tassazione, come previsto invero per determinate specifiche fattispecie in materia di imposte indirette (v. art. 52 D.P.R. 131/86 in materia di imposta di registro). Evidentemente non serviva.

Parrebbe quindi non essere possibile un accertamento basato esclusivamente sulla questione del prezzo di mercato di una partecipazione, al di là del corrispettivo dichiarato in atto. Come vedremo, serviranno altri elementi.

 

Cosa può fare l’Agenzia delle Entrate?

Qualora ci fosse un grande disallineamento dei valori, questo potrebbe costituire un indizio utile, per l’Amministrazione Finanziaria, ma certamente non una prova sufficiente. Rimandiamo ad un paragrafo successivo le analisi di due sentenze della Cassazione, su questo particolare aspetto.

Nel passato si era data preferenza, nella selezione delle posizioni dei contribuenti da esaminare, alle cessioni avvenute tra soggetti collegati da rapporti di parentela o di compartecipazione nella società (Nota 5/11/1999 prot. 185903).

Ma servono in ogni caso prove, elementi concreti, per poter accertare un valore diverso.

In questo senso, così come rilevato dalla circolare del 2010 dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Vasto, si sono pronunciati CTR Lazio sentenza n. 157 del 12 dicembre 2002 e CTR Liguria con sentenza n. 4 del 12 aprile 2005. Sempre su tale aspetto abbiamo un intervento da parte del Comando Generale della Guardia di Finanza (Circ. prot. 1/360000 del 20/10/1998): “nel caso di cessione della partecipazione, sia che essa dia luogo a plusvalenze, sia, soprattutto, nel caso in cui la vendita generi minusvalenze, deve essere esaminata l’intera operazione allo scopo di accertare se il prezzo praticato sia congruo. Ciò non significa, naturalmente, che i verbalizzanti possono sindacare il corrispettivo praticato dalle parti in regime di libera contrattazione ma soltanto che il prezzo fatturato e contabilizzato sia quello effettivamente pagato dall’acquirente. A tal riguardo, può essere appurato, ad esempio, se il compratore è in qualche modo collegato all’impresa verificata ovvero legato da vincoli di parentela o affettivi con la controparte, le modalità di pagamento, acquisendo, per quanto possibile, i relativi mezzi (copie di assegni, bonifici, ecc.) - salvo il ricorso agli accertamenti bancari in caso di elementi indiziari “di sospetto” - gli effetti sui rispettivi redditi imponibili...., i tempi della vendita, le motivazioni della stessa come risultanti dagli atti societari, il lasso di tempo intercorso tra l’originario acquisto e la vendita”.

L’Agenzia delle Entrate ha quindi due possibilità, qualora dovesse ritenere di accertare un maggiore valore:

1) ricercare e utilizzare altre prove o indizi sulla possibile evasione;

2) oppure sostenere la simulazione della vendita.

Quanto agli indizi, dovranno essere gravi, precisi e concordanti, accompagnati se dal caso da altri elementi indiziari (soprattutto dei movimenti bancari).

 

La norma antielusione

Le disposizioni antielusive di cui all’art. 37 bis D.P.R. n. 600/1973 Si ritengono inapplicabili, nella fattispecie.

Infatti la cessione non è operazione elusiva di per se stessa, mentre parrebbe esserlo se collegata ad altro atto giuridico, se non sostenuto da valide ragioni economiche.

Si richiama, a tal proposito, il parere del Comitato Consultivo sulla norme antielusione. Con il parere n. 6 del 10 aprile 2003 ha specificato che “l’intendimento dei soci di cedere le proprie partecipazioni ad un prezzo pari al costo fiscalmente riconosciuto di per sé non è sindacabile dall’Amministrazione Finanziaria in quanto la determinazione del corrispettivo nell’ambito della libera contrattazione tra le parti risponde ai principi di una piena libertà decisionale”; e più altrove “la cessione, perfezionabile ad un prezzo non congruo rispetto all’effettivo valore delle azioni, è resa di fatto possibile dalla circostanza che i soci intendono vendere a loro stessi” così come “la decisione dei cedenti di garantire una dilazione di pagamento sine die alla società debitrice”; pertanto “le ragioni economiche non appaiono del tutto apprezzabili da un punto di vista economico-gestionale poiché il raggiungimento del controllo della società partecipata poteva essere agevolmente conseguito anche tramite patti tra i soci senza procedere alla cessione delle quote” dal momento che “finalità ultima dei soci non è tanto quella di percepire un corrispettivo a fronte della consegna di beni, quanto quella di avvalersi della soluzione fiscalmente più vantaggiosa - la mancata emersione di plusvalenze tassabili - con cui conferire alla propria società gli strumenti (le quote di maggioranza) per esercitare a sua volta il controllo ai sensi dell’art. 2359 n. 1 c.c.”; ciò configura “un’ipotesi di aggiramento delle disposizioni di legge che disciplinano il conferimento di beni a valore normale, se effettuato da persone fisiche non esercenti attività commerciali, ai sensi dell’art. 9 del TUIR” da cui “deriverebbe un indebito vantaggio tributario identificabile nella mancata emersione di una plusvalenza tassabile in capo alle persone fisiche”. (indicazione tratta sempre dall’analisi dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Vasto)

Lo stesso dicasi per l’abuso del diritto, per il quale dovrebbero valere le stesse osservazioni.

 

Il Notariato

Anche il Notariato è intervenuto, su questa questione, con lo studio n. 852 - 2014/T, ove sono trattati più aspetti, tra cui appunto anche la cessione di quote al valore nominale. L’analisi prosegue facendo una specificazione circa i soggetti (cessioni tra familiari oppure con estranei), l’attività svolta (immobiliare plusvalente o operativa), la storicità della società e il tipo di società.

Nel caso di quote di società di persone, infatti, si deve tener presente il deprezzamento che può subire la quota per effetto della responsabilità illimitata del socio. Come pure del particolare meccanismo di determinazione del valore fiscale della quota. A norma dell’art. 68 comma 6 del TUIR, il valore fiscale delle quote viene infatti aumentato dei redditi fiscali imputati e ridotto degli utili effettivi distribuiti, il che può anche comportare dei disallineamenti.

In ogni caso l’analisi non approfondisce la questione che sta alla base del problema.

 

La Corte di Cassazione

In ogni caso la sola differenza tra il corrispettivo percepito e il netto contabile non giustifica un accertamento; servono anche altre presunzioni qualificate.

Nel passato, la Cassazione (sentenza n. 15520 del 6 novembre 2002) ha condiviso la tesi dell’Ufficio che aveva accertato un maggiore valore, in presenza di una cessione seguita dopo poco ad altra cessione, a prezzo quasi triplicato.

Successivamente si hanno due sentenze, su questo tema, nel 2016 e nel 2020.

La sentenza n. 23498 del 18 novembre 2016 della Corte di Cassazione è intervenuta in un caso di cessione di quote ad un prezzo irragionevole, con una abnorme differenza tra valore reale delle quote e valore nominale al quale erano state cedute. Si trattava della cessione al nominale (99 milioni di lire) di quote di una società proprietaria di marchi (Coveri) periziati molto di più. Trattandosi di una condotta irragionevole, è stato accertato un maggior valore delle quote cedute.

Viene innanzitutto richiamata, da parte dell’amministrazione finanziaria, la clausola antielusiva e l’abuso del diritto. Ma questa prospettazione evidenzia l’incongruenza:” secondo l’ufficio, difatti, quanto dichiarato non corrisponde alla realtà; di contro, l’applicabilità della clausola antielusiva postula l’esatto contrario, ossia che quanto dichiarato sia conforme al vero, sia pure in mancanza di valide ragioni economiche ed al solo fine di conseguire vantaggi altrimenti non conseguibili.”

“Ciò non esclude che l'accertamento del suddetto "valore normale" possa essere concretamente valorizzato dal giudice di merito per sorreggere la presunzione (semplice) che il corrispettivo percepito dalla vendita di una partecipazione societaria sia difforme da quello dichiarato e, invece, conforme al "valore normale"; ma si tratta di valutazioni che rientrano nei poteri di accertamento del fatto del giudice di merito, al quale solo compete l'apprezzamento (non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione) circa il ricorso alla prova presuntiva, la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l'esistenza del fatto ignoto (Cass. 11906/03, 15737/03, 10847/07, 8023/09; ord. 101/15).”

“Le circostanze di fatto così evidenziate sono potenzialmente idonee ad orientare una diversa decisione, dando conto di una differenza abnorme tra valore nominale e valore reale delle quote cedute, capace di connotare come irragionevole la condotta delle contribuenti e di fondare una diversa valutazione del compendio indiziario in atti.”

Pertanto, secondo la Cassazione, che cassa le sentenze delle Commissioni Provinciale e Regionale, gli accertamenti fondati sullo scostamento tra il valore effettivo dell’attività ceduta e il valore nominale della quota non possono essere motivati né facendo riferimento all’antieconomicità dell’operazione, né facendo riferimento al valore normale, né ancora invocando le disposizioni sul divieto di abuso del diritto.

In conclusione, sempre secondo la Cassazione, è legittimo assumere quale valore della società quello dei beni in essa contenuti. Infatti la rilevante differenza tra il valore nominale delle quote cedute ed il loro valore reale, “è capace di connotare quale irragionevole la condotta delle contribuenti e di fondare una diversa valutazione del compendio indiziario in atti”.

Per un commento specifico di questa sentenza, vedasi, sempre su Commercialista Telematico, Fabio Carrirolo, “Cessione di partecipazioni sociali al valore nominale “ del 3 aprile 2017.

Si ha poi la sentenza n. 16366 del 30 luglio 2020 la quale impone il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente, trattandosi di clausola antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria, essendo precluso al contribuente di conseguire vantaggi fiscali – come lo spostamento dell’imponibile presso soggetti appartenenti al medesimo gruppo societario – mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.”

“in tema di determinazione della plusvalenza Irpef ex articolo 67 d.P.R. n. 917/1986, la perizia giurata di stima di cui alla I. 448/01 non limita il potere di accertamento dell’amministrazione finanziaria, desumendosi da essa unicamente il valore normale minimo di riferimento – ma non per questo intangibile – ai fini della tassazione sostitutiva.”

Viene anche richiamata una sentenza di Cassazione (n. 17955/2013) relativa alla determinazione di valore per cessione di partecipazioni infragruppo, fattispecie elusiva in presenza di discrasia di valore tra il valore normale e il corrispettivo concordato. E questo nonostante in precedenti arresti si sia espressa differentemente (ad esempio, n. 3290/2012, secondo la quale la differenza di valore tra valore normale e corrispettivo non costituisce presunzione di elusività).

È di tutta evidenza come si tratti di due sentenze in parte contrastanti, pur se alla fine arrivano allo stesso risultato, quello di sostituire il termine corrispettivo con, in buona sostanza, il valore normale, anche se la norma esplicitamente ciò non prevede.

 

La recente sentenza di Cassazione n. 35685/2023

La Cassazione è recentemente intervenuta, su un tema per certi versi similare, anche se non fiscale, con la sentenza n. 35685 del 21 dicembre 2023.

Il caso si riferiva ad una eccepita nullità di un contratto di cessione di partecipazioni a prezzo simbolico per mancanza di causa; si era quindi in una controversia tra soggetti privati, non certamente con controparte il fisco. La Cassazione ha ritenuto valido il contratto di cessione, ancorché il prezzo fosse squilibrato.

Così è stata massimata: “Nei contratti di scambio - anche di partecipazioni sociali - lo squilibrio economico originario delle prestazioni delle parti non può comportarne la nullità per mancanza di causa, perché nel nostro ordinamento prevale il principio dell'autonomia negoziale, che opera anche con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive.

Solo l'indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore, meramente apparente e simbolico, può determinare la nullità della vendita per difetto di uno dei suoi requisiti essenziali, mentre la pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto privo di valore, pone solo un problema concernente l'adeguatezza e la corrispettività delle prestazioni ed afferisce, quindi, all'interpretazione della volontà dei contraenti ed all'eventuale configurabilità di una causa diversa del contratto.

Tuttavia, non può ritenersi meramente apparente o simbolico il prezzo che, seppure pari a zero o a cifra che si approssima allo zero, si riferisca a un negozio che presenti carattere oneroso in relazione all'assunzione da parte dell'acquirente, contestuale o con atti collegati, di obblighi connessi con il diritto acquistato; come nel caso, ricorrente nella specie, dell'acquisizione di partecipazioni sociali che impongano al titolare ulteriori apporti finanziari pena l'azzeramento del valore di tali partecipazioni.”

 

La cessione di partecipazioni nel reddito di impresa

E questa impostazione è stata confermata dalla Cassazione (Sentenza n. 4057/2007), secondo cui: “i principi relativi alla determinazione del valore di un bene che viene trasferito sono diversi a seconda dell’imposta che si deve applicare, sicché quando si discute di imposta di registro si ha riguardo al valore di mercato di un bene, mentre quando si discute di una plusvalenza realizzata nell’ambito di un’impresa occorre verificare la differenza tra il prezzo di acquisto e quello di cessione (Cass. 4914/86; 2101/90; 14448/2000;19548/2005)”. “È vero tuttavia che, nella fase di accertamento di una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di azienda, l’Amministrazione Finanziaria è legittimata a procedere in via presuntiva sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato col valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore (Cass. 14448/2000 e 19548/2005 cit.; 4581/2001; 21055/2005)”.

Pertanto l’Agenzia delle Entrate non ha il potere di rettificare il corrispettivo pattuito perché inferiore al valore di mercato. La eventuale inferiorità del prezzo pattuito rispetto al valore di mercato può però essere accertata utilizzando la presunzione che il corrispettivo percepito sia diverso da quello dichiarato.

E circa la natura della presunzione si è pronunciata la Cassazione, nella Sentenza n. 3290/2012, “L’Agenzia delle Entrate ricorre … per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, confermando la sentenza di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento per IRPEF 1998, con il quale l’Ufficio aveva recuperato a tassazione la plusvalenza derivante dalla vendita di una quota di partecipazione della contribuente nella società…. Secondo la Commissione Tributaria Regionale la plusvalenza andava determinata non con riferimento al valore di mercato della quota sociale venduta, bensì con riferimento al corrispettivo effettivamente percepito dalla venditrice e l’Ufficio non aveva assolto al proprio onere di dimostrare che la contribuente avesse ottenuto dalla vendita di detta quota un prezzo maggiore di quello dichiarato nell’atto”, ha affermato che “per l’accertamento del corrispettivo di vendita di partecipazioni non azionarie, ai fini della determinazione della plusvalenza tassabile … non può ritenersi sussistente alcuna presunzione legale di conformità tra il “corrispettivo percepito” ed il “valore normale” D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9. Nè a diversa conclusione potrebbe condurre il richiamo della ricorrente all’orientamento di questa Corte secondo cui, ai fini dell’accertamento della plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione dell’azienda, il valore di mercato determinato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro può essere legittimamente utilizzato dall’Amministrazione finanziaria come dato presuntivo, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato (Cass. 19548/05, 4057/07, 5070/11). Al riguardo va in primo luogo evidenziato che detto orientamento presuppone che il valore di mercato da utilizzare come dato presuntivo ai fini dell’accertamento della plusvalenza abbia formato oggetto di una determinazione definitiva nell’ambito di altro procedimento impositivo (relativo all’imposta di registro), laddove nella presente fattispecie il valore “normale” D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9 della quota di partecipazione sociale che ha generato la plusvalenza di cui si discute non risulta essere stato definitivamente accertato in altri procedimenti impositivi. In secondo luogo, si osserva che l’indirizzo giurisprudenziale in questione non fa riferimento a presunzioni legali, ma valorizza la portata di presunzione semplice che può attribuirsi, per la determinazione della plusvalenza generata dalla cessione di un bene, al valore di mercato che per il medesimo bene è stato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro. Detto indirizzo non è dunque idoneo a supportare l’argomentazione svolta nel motivo di ricorso in esame, perché con tale motivo la sentenza gravata viene censurata non sotto il profilo del vizio di motivazione ma sotto il profilo della violazione di legge. Il primo motivo del ricorso principale, conclusivamente, va giudicato infondato, perché la sentenza gravata non è incorsa in alcuna violazione di legge, in quanto le norme di cui la difesa erariale lamenta la violazione non prevedono alcuna presunzione legale di conformità tra il valore normale D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9 di una partecipazione societaria e il corrispettivo percepito per la vendita della stessa. Ciò naturalmente – è opportuno chiarire – non esclude che l’accertamento del suddetto “valore normale” possa essere concretamente valorizzato dal giudice di merito per sorreggere la presunzione (semplice) che il corrispettivo percepito dalla vendita di una partecipazione societaria sia difforme da quello dichiarato e, invece, conforme al “valore normale”; ma si tratta di valutazioni che rientrano nei poteri di accertamento del fatto del giudice di merito, al quale solo compete l’apprezzamento (non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione) circa il ricorso alla prova presuntiva, la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravita e concordanza richiesti dalla legge, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto (Cass. 11906/03, 15737/03, 10847/07, 8023/09)”.

Secondo tale sentenza la presunzione deve avere quindi i requisiti della gravità, precisione e concordanza ex art. 2729 c.c.

Nello stesso senso, successivamente, sempre Cassazione con la sentenza n. 23498/2016, più sopra commentata.

 

Tribunale di Milano 29 ottobre 2020

Il Tribunale di Milano (sentenza citata da Anita Mauro e Ilaria Pero in un loro articolo) ha avuto modo di pronunciarsi su un caso di cessione, nell’ambito familiare (dalla nonna ai nipoti), di quote di una accomandita a prezzo irrisorio. Ha ritenuto che deve ritenersi nulla,per mancanza della forma scritta richiesta ad substantiam, la cessione di quote effettuata al valore nominale, allorquando emerga che il valore reale sia tale da rendere il corrispettivo meramente simbolico e sostanzialmente equiparabile al c.d. “prezzo vile”. Ma questo è un altro punto di vista, legato a questioni successorie piuttosto che fiscali

 

Il negotium mixtum cum donationem

Piuttosto che ricorrere all’accertamento di una plusvalenza tassabile ai fini delle imposte dirette, l’Amministrazione finanziaria potrebbe riqualificare la cessione di quote di partecipazioni tra privati ad un prezzo inferiore a quello di mercato come negotium mixtum cum donationem ‘, applicando così l’imposta di donazione.

Come chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 3175 del 2011, “il “negotium mixtum cum donatione” (si riportano considerazioni dell’Avv. Anna Maria Conti nell’articolo “ Rettifica del corrispettivo delle cessioni di partecipazioni. Poteri di accertamento fondati sulla prova di un prezzo diverso dal valore di mercato o da quello dichiarato? Simulazione edonazione indiretta “) costituisce una donazione indiretta attuata attraverso l’utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo, per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo invece sufficiente la forma dello schema negoziale adottato (Cass. 10-2-1997 n. 1214; Cass. 21-1-2000 n. 642; Cass. 29-9-2004 n. 19601; Cass. 3-11- 2009 n. 23297), considerato che l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (Cass. 29-3-2001 n. 4623); può qui aggiungersi, quanto alla disciplina da applicare al “negotium mixtum cum donatione”, e dunque a sostegno della opzione per il criterio dello schema negoziale adottato rispetto al criterio della prevalenza, che, facendo la norma sulla forma della donazione parte di quelle disposizioni volte a realizzare la tutela del donante (per evitare che lo spirito di liberalità possa trasformarsi per lui in un pregiudizio), essa, a differenza delle norme che assicurano la tutela dei terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità di altro genere; infatti in tal caso troppo radicale sarebbe il sacrificio dell’autonomia privata alla quale si deve ricondurre il potere delle parti di avvalersi delle figure negoziali per perseguire finalità lecite e, come tali, atte a trovare nell’ordinamento il loro riconoscimento (così in motivazione Cass. 10-2-1997 n. 1214). Questa Corte, anche di recente, ha ribadito che (Cass. n. 7681/2019) nei contratti di scambio, la donazione indiretta è configurabile solo a condizione che le parti abbiano volutamente stabilito un corrispettivo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto, con l’intento, desumibile dalla notevole entità della sproporzione tra il valore reale del bene e la misura del corrispettivo, di arricchire la parte acquirente per la parte eccedente quanto pattuito. Infatti (cfr. Cass. n. 23297/2009), nel “negotium mixtum cum donatione”, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta, sicchè per la validità di tale “negotium” non è necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perché l’art. 809 c.c., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione, sia perché, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse (conf. ex multis, Cass. n. 1955/2007; Cass. n. 13337/2006; Cass. n. 1266/1986; Cass. n. 6723/1982)”.

Secondo la Sentenza n. 3175 del 2011 della Suprema Corte di Cassazione sopratrascritta, pertanto, la cessione di un bene ad un prezzo irrisorio (inferiore a quello di mercato) configura una vendita mista con donazione, con la conseguenza che “per la validità di tale “negotium” non è necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti”.

 

Conclusioni

I redditi diversi, tra i quali rientra la cessione di una partecipazione eventualmente plusvalente, prevedono la tassazione della differenza tra il costo della partecipazione, aumentato degli oneri specifici, e il corrispettivo percepito. Per le società di persone, inoltre, tenendo conto degli utili dichiarati nel frattempo, al netto delle distribuzioni. Qualora il corrispettivo dichiarato non sia plusvalente, sarà l’Amministrazione Finanziaria a dover provare, anche alla luce di presunzioni certe, precise e concordanti, che il corrispettivo era superiore. Non è quindi sufficiente la semplice differenza di valore tra quanto percepito e quanto valutato o valutabile sulla base degli elementi sostanziali per far scattare un accertamento.

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